Il lettore italiano, abituato alla manualistica storica scolastica, potrà rimanere veramente colpito, se non quasi traumatizzato, da questa “Storia dello Scisma Oriente-Occidente” [...] ma, una volta fatto lo sforzo di operare in noi stessi una vera e propria “metanoia” intellettuale ed accettando con serietà ed equanimità delle interpretazioni diverse da quelle alle quali abbiamo sempre dato credito, allora dovremo concludere col dare ragione ai nostri autori
Alcune note introduttive a cura del traduttore
Lo studio che presentiamo è costituito da due conferenze tenute dai Proff. P.Ranson e M. Terestchenko presso una scuola superiore di Parigi.
Quello che colpisce il lettore in questi studi è l’assoluta novità dell’impostazione data alla questione “scisma” per troppo tempo sconosciuta agli studiosi ed anche agli occidentali che fossero semplicemente interessati a questa storia, soprattutto a causa di storici in malafede che hanno preferito tenere molti risvolti di questa storia artatamente celati al fine di non permettere in alcun modo la messa in discussione delle origini del papato e del Sacro Romano Impero.
Non possiamo dimenticare, a questo proposito, come tutte le case regnanti dell’Europa occidentale originassero dall’Impero carolingio e dal sistema feudale la propria ragione di esistere e che l’eventuale messa in discussione della validità, sul piano del diritto storico dell’Impero carolingio, avrebbe messo conseguentemente in discussione anche la loro sussistenza.
Per ciò che riguarda il Papato, la cosa è anche più evidente, in quanto la tesi difesa da Ranson e Terestchenko è quella della “usurpazione” del trono ortodosso dell’antica Roma da parte di vescovi eretici germano-franchi aventi come scopo primario il mantenere prima il potere carolingio e poi, da Gregorio VII, il proprio potere politico da veri e propri imperatori romani (cfr. il Dictatus Papae del 1075).
In un primo momento, il lettore italiano, abituato alla manualistica storica scolastica, potrà rimanere veramente colpito, se non quasi traumatizzato, da questa “Storia dello Scisma Oriente-Occidente”, e arriverà fors’anche a rifiutarla quasi visceralmente tanto tutti noi siamo abituati alle nostre cognizioni di base e le riteniamo comode e tranquille anche per la nostra coscienza un po’ forse sonnolenta rispetto al nuovo, ma, una volta fatto lo sforzo di operare in noi stessi una vera e propria “metanoia” intellettuale ed accettando con serietà ed equanimità delle interpretazioni diverse da quelle alle quali abbiamo sempre dato credito, allora dovremo concludere col dare ragione ai nostri autori.
Ciò potrebbe dare origine ad una metanoia senz’altro un po’ più grande di quella culturale, ma questa è competenza di un Altro…
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Lo studio che segue è tratto, per fraterna concessione del suo direttore L. Motte, dai nn. 1 e 2 della rivista “LA LUMIÈRE DU THABOR”, edita a cura della FRATERNITÈ ORTHODOXE St. GRÈGOIRE PALAMAS che ne detiene i diritti letterari.
Daniele Gandini
Il quadro politico e religioso: la Romanità.
Per affrontare con serietà la questione dello scisma, bisogna, in primo luogo, schivare un primo ostacolo e cioè quello di vedersi negato il fondamentale ruolo dogmatico di questa questione oggi. Codesta questione rischia di essere rifiutata immediatamente da un punto di vista storico poiché gli specialisti in ecumenismo hanno fatto tanto per ridurne la portata fino al renderla una banale “questione di campanile” la cui sussistenza oggi è del tutto anacronistica. Non abbiamo forse visto qualche anno fa il Patriarca Atenagora dichiarare di aver perduto il suo diploma in teologia manifestando così il suo disinteresse per gli aspetti dogmatici dello scisma?
Per il padre Congar sono stati dei malintesi storici a provocare l’allontanamento reciproco: “Lo scisma di Oriente ci appare consistere nell’accettazione di uno stato di cose in cui ogni parte della cristianità, vive, si comporta e giudica senza tener conto dell’altra. Allontanamento quindi, provincialismo, situazione di non rapporti, stato di ignoranza reciproca. Lo scisma d’oriente, si è realizzato a causa di un progressivo estraniarsi delle parti e consiste oggi nell’accettazione di tale estraniarsi”. Secondo questa interpretazione, questo allontanamento ha avuto delle cause geografiche, linguistiche e morali.
La principale causa geografica – si afferma seguendo lo storico belga Pirenne – è la rottura delle vie di comunicazione tra oriente e occidente dovuta alle invasioni musulmane.
La causa linguistica di questa misconoscenza reciproca è l’ignoranza del greco in Occidente e del latino in Oriente. Culturalmente le due tradizioni, che non si capiscono più tra loro, sviluppano ciascuna autonomamente dall’altra due visioni peraltro possibili del Cristianesimo. In Oriente, a forza di risetacciare continuamente i Padri greci, la teologia diventa “Bizantina”; in Occidente, grazie ai carolingi, il dogma progredisce approfondendo le “intuizioni originali” della Patristica latina.
Congar, che vuol tirare tutte le conseguenze della sua analisi nell’ottica dell’unione delle Chiese, ne deduce che il reciproco allontanamento può essere superato, poiché le condizioni sociologiche sono cambiate: la società moderna è più “civilizzata”, più capace di amore di quanto lo fossero quelle di “Bisanzio” e dell’Occidente medioevale. Congar afferma ugualmente che la grande scoperta di oggi, del tutto ignorata nel passato dalla Chiesa, sarebbe l’amore: «Diciannove secoli di Cristianesimo si sono interessati quasi unicamente a Dio. Oggi conosciamo il mondo e questo si impone talmente a noi che certe affermazioni cristiane ci sembrano se non vacillare, almeno essere surclassate dalle evidenze che ci vengono dalle cose… Nulla è più significativo a questo riguardo del ritorno dell’amore, anche se solo della parola amore, nella letteratura religiosa».
Il fondo di questa posizione “ecumenista” sulla storia dello scisma è l’affermazione che i Padri abbiano ignorato, del tutto o in parte, l’amore e che conseguentemente ogni vivente oggi si trovi, su questo punto, ad un livello più alto di Sant’Atanasio, l’intransigente lottatore per la fede di Nicea, di san Cirillo d’Alessandria, il “persecutore” di Nestorio, o di San Massimo il Confessore che rifiutava ogni compromesso di fronte ai cinque patriarchi diventati per un momento eterodossi.
Si vede dunque fino a che punto queste tesi sono dei veri e propri insulti alla Teologia dei Padri quando si afferma che l’amore è “una scoperta recente”, e che è stata una mancanza di amore la causa delle grandi polemiche dei Padri contro gli eretici.
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Questo concetto, ammesso oggi da numerosi cattolici e anche da molti “ortodossi”, si fonda su di una visione della storia completamente falsa e su tre postulati che ci proponiamo di discutere nel modo che segue:
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Per prima cosa, “Bisanzio” non esiste, è un’impostura, o almeno una polemica indegna di storici seri, il chiamare “bizantini” coloro che fino alla caduta di Costantinopoli, Nuova Roma, e anche oltre, si sono sempre chiamati “romani”. Il Patriarca di Costantinopoli porta ancora oggi il titolo di “Arcivescovo di Costantinopoli Nuova Roma”.
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Secondariamente, l’opposizione culturale tra i Padri greci e latini si giustifica solo col fatto che i germano-franchi hanno dato ad Agostino d’Ippona un’autorità esclusiva a spese degli altri numerosissimi padri latinofoni anteriori. Questa sedicente opposizione dunque è in gran parte falsa e in luogo di distinguere tra Padri latini e Padri greci, bisogna riconoscere l’unità della Fede tra Padri latinofoni ed ellenofoni, tranne Agostino, nell’interno del quadro geopolitico della romanità.
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Infine, non c’è stato scisma nel senso di separazione di due mondi, poiché una cosa del genere sarebbe contraria alla definizione stessa di Chiesa, UNA per natura, ma l’usurpazione della sede ortodossa di Roma da parte della frazione francofila che ha dovuto agire per molti secoli prima di vincere la Romanità in occidente.
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La scienza storica europea chiama generalmente “bizantino” l’Impero Romano del santo Imperatore Costantino il Grande attribuendo all’Impero questo aggettivo a partire dalla fondazione di Costantinopoli (330), o a volte, a partire da Giustiniano (482-565). L’origine di questa nuova civiltà sarebbe legata ad una cosiddetta “orientalizzazione” dell’Impero Romano. In ogni caso tutti affermano che l’Impero Romano diventa “bizantino” verso il V-VI secolo, perché si ellenizza e perde la sua latinità originaria. D’altro canto questa stessa scienza storica chiama “bizantino” il quadro culturale e teologico dell’Impero, perché esso perde la sua specificità greca per modellarsi su di una “mentalità bizantina” assai problematica. Già i due termini “Greci” e “Bizantini” sono recenti e peggiorativi.
Il termine “greco” non viene in verità impiegato prima dell’VIII-IX secolo, nel particolare clima politico e ideologico dell’epoca carolingia: Carlo Magno vuole restaurare l’impero romano e a questo scopo gli è necessario negare ogni legittimità al “Basileus” Ortodosso col fine precipuo di spezzare il legame profondo esistente fra le popolazioni gallo-romane e italo-romane da un lato e Costantinopoli dall’altro. Chiamare “greci” i popoli dell’Impero è, per mezzo di un’impresa ideologica di notevole ampiezza, rigettarli fuori dall’Occidente e praticamente identificarli con i “Gentili”, con i Greci antichi e cioè con i pagani di cui parla la Scrittura.
Alcuni anni più tardi, Nicola I, il primo papa germanofilo attaccato dai vescovi italo-romani del sud dell’Italia e da quelli gallo-romani in conflitto con il clero franco, tentò di raccogliere intorno a sé tutto l’episcopato germanico e franco. Fece comporre dei trattati “contro gli errori dei greci” che si rivelarono delle vere e proprie minacce nei confronti della Fede cristiana. Nella mente di Hincmar e degli altri teologi franchi di quest’epoca che pensavano di poter far progredire nel sottile la teologia analizzando l’essenza di Dio con le categorie di Aristotele, il termine “greco” è un insulto pieno di disprezzo: i “greci” sono insieme indegni del nome di “cristiani”, ignoranti in teologia e perfidi come degli “orientali”. Basta consultare i numerosi trattati “Contro gli errori dei greci”, da quello di Ratramno di Corbia fino a quello di Tommaso d’Aquino, per notare che queste raccolte di citazioni false e menzognere appaiono col chiaro ed evidente scopo di presentare la particolare sottigliezza del “Filioque” come un segno di grande superiorità intellettuale dell’Occidente sui “greci”. Tra gli ortodossi romani dell’Impero quel termine era considerato una vera e propria ingiuria; nel secolo XV anche un partigiano dell’unione con Roma al Concilio di Firenze (6 luglio 1439), quale l’Imperatore Giovanni Paleologo, rifiutò come ingiurioso l’epiteto di “greco”.
Ugualmente è da dirsi per il termine “bizantino”; nessuno si sognerebbe oggi di chiamare i parigini “luteziani” dal nome dell’antico villaggio sul quale è costruita l’attuale città così come noi facciamo usando quel vocabolo per gli abitanti di Costantinopoli Nuova Roma. Il termine d’altronde è piuttosto tardivo perché è solo nel XIV secolo che un latinizzante uniata, Niceforo Gregoras (1296-1360), l’utilizzò per la sua storia dei Romani intitolata “Storia dei ‘Bizantini”. Nei secoli XVI e XVII viene impiegato più frequentemente soprattutto dagli Illuministi francesi che ad esso diedero un valore dispregiativo. Montesquieu e Voltaire parlano rispettivamente di «un’indegna raccolta di declamazioni e di miracoli» e di «un tessuto di rivolte, di sedizioni e di tradimenti» per descrivere l’Impero Romano di Costantinopoli. Fino ad oggi questo termine ha conservato tale connotazione negativa e abbiamo potuto vedere persino un professore della Sorbona arrabbiarsi al solo nome del grande e Santo Fozio.
Quale che sia l’impronta di mille anni di passioni antiortodosse, resta il fatto che la storia, nel suo sforzo necessario di rigore e di obiettività, non ha assolutamente il diritto di usare una terminologia uscita dalle polemiche più violente dell’epoca carolingia o del XVIII secolo. Non ne verrebbe di conseguenza la liceità di trattare i “tempi lunghi” della storia universale partendo da concetti apparsi in momenti ben precisi di lotte per lo più “provinciali”? Non sarebbe più giusto chiamare i bizantini col loro nome di Romani e di utilizzare gli aggettivi e i sostantivi propri della loro Romanità? Non è forse ciò che fanno ancora oggi gli Arabi che li chiamano “Rom” e “Romis”?
Innumerevoli sarebbero le sorgenti testuali di queste affermazioni e gli storici potrebbero analizzare più adeguatamente il sentimento profondo di unità culturale che avevano i Romani della Nuova Roma nei confronti del passato sia “romano” (latino) sia “greco”, sia antico sia cristiano. Per esempio la BIBLIOTECA di san Fozio sconcerta spesso il critico occidentale il quale vi vede soltanto un prezioso libro di erudizione che evidenzia la curiosità intellettuale del santo patriarca, quando invece i libri di Storia Romana o di Filosofia greca gli erano così poco estranei quanto per un francese del XX secolo lo sarebbero le opere di Racine o quelle di Molière. La storia antica era tanto vicina culturalmente a san Fozio quanto ne era tenuta lontana, sul piano dei valori cristiani, come ne è testimonianza il suo rifiuto all’intrusione del razionalismo umanista carolingio nell’interno della dogmatica. Gli “umanisti” latini o greci non avevano un carattere di esemplarità per un romano di Costantinopoli, più di quanto la nostra infanzia lo abbia per l’adulto che siamo diventati.
Prendiamo un altro esempio più recente: qualcuno potrebbe obiettarci il fatto che la Grecia continentale, una volta liberata dal giogo dei Turchi, non ha scelto il nome di “Romanità”. Nei fatti questa è l’eccezione che conferma la regola: sono state le potenze occidentali a imporre il termine “greci” per tagliare via gli ortodossi continentali dai loro fratelli dell’Anatolia e impedire così ogni rivendicazione dell’Asia minore, in quanto i Turchi dovevano essere risparmiati e protetti per ragioni di politica internazionale. Le conseguenze di questa politica furono più tardi i massacri di Asia minore del 1923 durante i quali truppe francesi ed inglesi assistettero indifferenti allo sterminio delle popolazioni cristiane. Nel XIX secolo, in ogni caso, la scelta dei termini greci ed elleni fu combattuta dagli Ortodossi ostili alla rinascita di un neo-paganesimo elleno; il grande poeta Costis Palamas fu il cantore della romanità di fronte alle tesi del gruppo neo-greco di Korais incapace di dimostrare l’esistenza di una coscienza nazionale neo-greca autonoma. Oggi il teologo di fama mondiale Giovanni Romanidis, professore all’Università di Tessalonica, è diventato il difensore dell’idea e della coscienza romana ortodossa.
Il Padre Giovanni Romanidis ha in particolare denunciato la grande contraddizione della scienza storica europea che presentiamo di seguito: da un lato si afferma che l’impero è diventato “bizantino” perché è diventato “elleno” o “greco”; dall’altro si spiega il passaggio dalla civilizzazione ellenica dell’impero romano – quella ad esempio dei grandi Cappadoci – alla civilizzazione bizantina con la perdita del carattere propriamente elleno di questa civilizzazione. Così l’Impero Romano diventa “bizantino” perché si ellenizza e la civilizzazione ellenica diventa “bizantina” perché cessa di essere ellena.
Si vede così quanto sia grande la confusione presso gli storici e i teologi occidentali che parlano ora di “bizantini” ora di orientali ora di greci per indicare un impero che si è sempre chiamato nella stessa maniera: Romano.
Sarebbe dunque un vero progresso il rifiutare questi termini dispregiativi di “greci” e di “bizantini” che non hanno nemmeno il merito di chiarire i fatti storici. Se si ritornasse alla denominazione di “romano” e di “romanità ortodossa”, l’efficacia scientifica sarebbe grande almeno su tre punti:
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Lo storico avrebbe un filo conduttore coerente per considerare la storia del mondo mediterraneo nella sua totalità: l’impero romano viene invaso da popolazioni barbare che impongono il loro dominio in modo piuttosto differente; in occidente questa dominazione consiste in una sorta di imitazione parodistica e nell’usurpazione delle antiche strutture romane e cristiane; presso i musulmani si stabilisce invece un modello di dominazione non parodistico e le due culture, cristiana e musulmana, restano, seppure in una certa misura parallele ed ostili. I punti d’incontro essenziali sono particolarmente interessanti e sono incomprensibile al di fuori di questa unità culturale romana, in particolare quando si parla del periodo carolingio, delle crociate e del Concilio di Firenze. Quest’ultimo avvenimento è spesso trascurato dagli storici quando invece riveste un’importanza quasi paradigmatica. Bessarione inventa e diffonde ben presto l’umanesimo insieme pagano e papista; San Marco d’Efeso rifiuta assolutamente, in nome della Romanità Ortodossa, l’infallibilità del papa e dell’uomo europeo; Pletone riscopre una ellenicità fondata sul ritorno dei culti pagani, ritorno ostile tanto alla romanità quanto all’Europa.
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La storia non dovrebbe cercare una “latinità” che non esiste sempre. Le differenti costruzioni della latinità in Occidente – Carlomagno e successori – sarebbero meglio comprese se fossero studiate come utopie o come ideologie nate per facilitare il dominio sull’antica Romanità Ortodossa.
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La lotta patetica dei Romani d’Occidente contro i Barbari potrebbe infine essere studiata in una prospettiva di lunga durata invece di svanire curiosamente dopo i Merovingi. In particolare la volontà degli Italo-Romani del sud d’Italia o della Sicilia, dei provenzali, degli aquitani, degli spagnoli romanizzati, tutti ortodossi, di preservare la loro cultura e la loro fede potrebbe essere studiata in quest’ottica.